Sono passati dieci anni dalla nascita dei Madbeat, e chi li ha seguiti fin dall’inizio sa bene quanto il loro punk abbia sempre avuto un’anima passionale, viscerale, ma anche malinconica. In questi anni hanno attraversato cambi di formazione, un lockdown, decine di palchi in tutta Europa e una crescita artistica costante. Ma oggi, con “Chiudere Gli Occhi”, qualcosa sembra essersi acceso in maniera diversa.
Fiati, cori gospel, organi: elementi inediti che rompono gli schemi del loro sound più diretto, pur restando fedeli a quella urgenza punk e a quel bisogno di cantare la vita a squarciagola. È come se i Madbeat stessero aprendo una nuova fase, più matura, più profonda, senza rinunciare all’energia che li ha sempre distinti.
Li abbiamo intervistati per farci raccontare cosa c’è dietro questa svolta sonora e tematica, cosa rappresenta “la notte” in questo brano e, soprattutto, dove stanno andando i Madbeat.

“Chiudere Gli Occhi” è un brano che rompe con il vostro sound tradizionale, introducendo elementi come fiati, cori gospel e organi. Cosa vi ha spinto a sperimentare in questa direzione? È stato un salto nel vuoto o una naturale evoluzione?
Penso siano state entrambe. Siamo ben consci del fatto che ormai tutti e 4 abbiamo una mente molto aperta a nuove cose. Questa è stata una cosa che poteva tranquillamente arrivare prima o poi, ma allo stesso tempo il modo in cui gli arrangiamenti si sono intromessi nel brano è stato un vero plottwist. Il brano era già praticamente scritto…e provandolo in sala prove ad un certo punto abbiamo fantasticato su alcuni strumenti che potevano starci bene. Il giorno dopo li abbiamo scritti in pre produzione e in fase di registrazione abbiamo chiamato i musicisti per registrarli. Ed è stato tutto bellissimo.
La “notte” nel testo diventa simbolo della realizzazione personale e dei sogni che rischiano di essere abbandonati. Quanto c’è di autobiografico in questo brano? E quanto pensate parli anche della vostra generazione?
Penso che sia innanzitutto autobiografico, ma che si rivolga a momtissime persone. Quante volte dopo la domanda “cosa fai di lavoro?” Abbiamo risposto “il musicista/il fonico/il tourmanager/il videomaker/il promoter” e a questa risposta è sempre seguito un “no, intendo il tuo vero lavoro…” ecco questo a dimostrazione che spesso gli ostacoli vengono posti da persone che hanno perso la loro voglia di sognare e perseguire le loro passioni, a differenza da chi oggi fa il musicista di lavoro. Secondo me ogni generazione ha avuto questi problemi, magari negli anni 90 era più veloce la metamorfosi da passione a lavoro, oggi più lenta e dispendiosa, ma comunque tutte le generazioni hanno avuto questi problemi.
In una scena punk che spesso fatica ad accettare cambiamenti sonori o sperimentazioni fuori dai canoni, vi siete mai chiesti se il vostro pubblico avrebbe capito questa scelta? O ve ne fregate e seguite l’urgenza espressiva?
Ce lo siamo chiesti molte volte, e per quanto cambiano sfumature credo che nella nostra anima rimaniamo sempre fedeli alle nostre origini. Detto ció credo che sia giusto andare dove la musica ti porta. Cambiamo continuamente stati d’animo, la personalità delle persone cambia e tutte cambiano idea su qualcosa…perchè sulla musica no? Noi faremo sempre quello che ci piace fare…detto ció non credo che questo ci porti a fare disco dance…percui sereni.
L’arrangiamento è davvero ricco e stratificato. Com’è stato lavorare in studio con strumenti e armonie così lontane dal classico punk rock? Avete scoperto qualcosa di nuovo su di voi come musicisti in questo processo?
È stata un esperienza davvero formativa. Stefania nelle armonie vocali è spaziale e questo ci ha fatto capire quanto un coro giapel possa cambiare mood restando fermo. Abbiamo abbassato la distorsione delle chitarre e questo per assurdo ha dato più botta al pezzo e insieme ai fiati abbiamo lavorato sulle armonie. L’organo è una terza chitarra che porta avanti il brano e lo sostiene. È stato un lavoro davvero incredibile fatto con musicisti bravissimi.
Da “I Fiori della Palestina” a “Chiudere Gli Occhi” emerge un’urgenza di raccontare il presente, sia nei suoi drammi collettivi che nelle lotte interiori. Quanto è importante per voi oggi scrivere canzoni che abbiano anche un impatto “umano” oltre che musicale?
I nostri testi parlano quasi esclusivamente di emozioni e sensazioni…anche I fiori della palestina è una sensazione…noi raccontiamo quello che riusciamo a percepire a più di 2000km di distanza…non sarà mai neanche paragonabile a quello che si prova laggiù ora. Raccontare quello che sentiamo è l’unico modo per dare un senso al futuro della musica. Altrimenti possiamo cantare di un futuro che non conosciamo, che saremo sempre tutti felici e contenti, che non avremo mai problemi…ma non ne saremo mai sicuri finchè quel futuro non sará un presente…
I Madbeat sembrano camminare su un filo tra punk viscerale e rock da urlare a squarciagola. È una dicotomia consapevole o un’identità che vi è venuta naturale col tempo? Dove sentite di stare, oggi, musicalmente?
Citando un cantante che stimo molto “da qualche parte tra Carpi e San Francisco”. Di consapevole non c’è quasi nulla se non che abbiamo raggiunto una nostra identità, che per fortuna è riconoscibile solo dal nostro pubblico…se fosse riconoscibile anche da noi stessi sarebbe un disastro…finiremmo per copiare noi stessi all’infinito al posto che scrivere canzoni nuove. Quindi anche noi penso che possiamo stare ovunque tra Torino e San Franciaco.
“Dimmi dove si salta e io salto” è una frase potentissima. È una dichiarazione d’intenti, quasi un manifesto. Dove stanno per saltare i Madbeat adesso? Cosa dobbiamo aspettarci dai prossimi passi?
I madbeat quando c’è stato da “saltare” hanno sempre saltato. La nostra è una presa di posizione verso ció che ci piace. I forse non portano mai a niente e noi abbiamo davvero voglia di fare tutto. Il futuro, come disse un altro cantante che stimo tantissimo, non è scritto, quindi noi siamo pronti a saltare dove ci sarà da saltare.