Nati come evoluzione naturale dei Break The Silence (e prima ancora dei The Distance), i canadesi The Last Mile sono guidati da Chris Snelgrove, figura storica della scena punk hardcore di Montreal. Con il nuovo album “Holding On To Hope”, la band mette in mostra la propria capacità di coniugare energia, melodia e contenuti profondi, affrontando tematiche personali e sociali con uno sguardo sincero e disilluso, ma sempre attraversato da una luce di speranza. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Chris in occasione dell’uscita del disco, parlando di vulnerabilità maschile, tour punk in Sud America, lotta politica e della bellezza di riuscire ancora a trovare un senso, nonostante tutto.

“Holding On To Hope” sembra un disco che non ha paura di mostrare sia vulnerabilità che forza. Quanto è stato difficile – o liberatorio – scrivere canzoni così intime in un’epoca che spesso premia la superficialità?
Chris – Ho sempre cercato di essere il più onesto e autentico possibile nei miei testi, da tutta la vita. Quasi fino all’eccesso. A volte scrivo di qualcosa che mi tormenta nel momento stesso in cui lo vivo, e poi mi ritrovo a dover cantare quella canzone più e più volte, anche per anni, e questo può davvero pesare. Sono sicuramente preoccupato per alcune di queste canzoni, per questo motivo. Ma per rispondere alla tua domanda: trovo che sia liberatorio, perché per me la musica è una forma di terapia. Mi permette di dire ad alta voce le cose che nella mia vita resterebbero in silenzio.
Ci sono brani in questo disco che parlano del declino della salute di mia madre, che hanno fatto emergere problemi di controllo molto profondi con cui ho lottato in passato. È venuta a mancare pochi mesi dopo che avevamo finito di registrare. Ha avuto un ictus, poi una crisi epilettica nello stesso punto del cervello, e la sua capacità cognitiva di comunicare si è deteriorata, iniziava a sviluppare una forma di demenza. Per quanto io capisca che la vita è un momento effimero, ero furioso all’idea che una persona così incredibile, così buona, dovesse soffrire tanto e che io fossi impotente. E non fraintendermi: persone straordinarie muoiono ogni giorno, lo so bene, non sono l’unico a vivere tutto questo. Ma la sensazione di impotenza quando qualcuno che ami soffre è quasi insopportabile.
La canzone Written In Water parla proprio della perdita dei ricordi e del non riuscire ad accettarlo. Del non riuscire a lasciar andare, del non voler mostrare quanto fossi triste, nel tentativo di proteggere mia madre e non farle pesare il mio dolore. Uso spesso la metafora dell’acqua nei miei testi, perché ogni volta che ho potuto essere vicino all’oceano, è sempre stato un luogo di calma e serenità per me. Quindi, alla fine, direi che è sia difficile che liberatorio, a seconda della canzone.
Quando siete sul palco si percepisce un legame reale, tangibile con il pubblico. C’è stato un momento, una città o un concerto in cui ti sei reso conto che The Last Mile era diventato qualcosa di più di una semplice band?
Chris – Sono molto ispirato da persone come Ian MacKaye e Tim Barry (quando l’ho incontrato per la prima volta negli anni ’90, con gli Avail), e da tanta musica della scena hardcore/emo/screamo degli anni ’90, con cui sono cresciuto. Suono in band in tour da quando avevo 17 anni (1994). Quelle persone mi hanno insegnato chiaramente che non c’è una linea tra chi sta sul palco e chi sta sotto. Chiunque può essere la persona sul palco, e chi è sul palco è la stessa persona che trovi tra il pubblico quando non sta suonando. Detto questo, ho suonato con molte band che non interagiscono minimamente con le persone, e penso che sia un peccato.
Non so se c’è un momento preciso, ma ci sono sicuramente esperienze che mi hanno segnato. L’anno scorso abbiamo suonato due concerti in Colombia con i Comeback Kid, e in entrambe le serate eravamo “la band punk” della serata, ma il pubblico è stato incredibilmente ricettivo e rispettoso. A Bogotá siamo rimasti per oltre un’ora a fare foto, parlare con tutti… e ancora oggi, a distanza di un anno, riceviamo messaggi, storie con la nostra musica o il nostro merch, o semplici saluti da quelle persone. È una fortuna poter vivere esperienze del genere.
Un altro esempio: nel 2022 abbiamo suonato al Monte Paradiso, in Croazia. Il cuoco che preparava i pasti per le band ci ha raccontato che lui e il fonico (suo coinquilino) erano finiti nei guai con la polizia, perché un vicino tossicodipendente aveva nascosto della droga nella loro proprietà e aveva cercato di incastrarli come complici, anche se non c’entravano nulla. Erano due punk working class che lavoravano e facevano volontariato per quel locale, ma non avevano soldi per difendersi. Abbiamo messo una cassetta per le donazioni e abbiamo dato tutti i ricavi del merch al loro fondo di difesa. Ne abbiamo parlato sul palco, e il pubblico ha donato circa 50 euro. Ne abbiamo aggiunti altri 100 dal merch e altri 50 dal fondo della band. Erano in lacrime, non volevano accettare i soldi. Ma abbiamo insistito. Hanno usato quei soldi (e molti altri) per affrontare il processo, e alla fine hanno vinto. Il cuoco ora è un mio caro amico e ci sentiamo spesso.
D’altro canto, ho avuto anche conversazioni intense e personali, uno a uno, con persone dopo i concerti, su argomenti pesanti. Spesso si parla di sobrietà. Sono straight edge, ma non lo impongo mai a nessuno. A volte metto una X o una maglietta SXE e la gente lo nota: a volte in positivo, a volte in negativo. Una volta, sempre in Croazia, dopo un concerto, ho parlato tutta la notte con un ragazzo che stava cercando di disintossicarsi e faceva molta fatica. Abbiamo parlato per ore, alla fine se n’è andato con il mio numero, e da allora mi ha scritto nei momenti difficili… e in quelli belli. Leggendo tutto questo, non penso che questo ci renda più di una band. Penso solo che ci renda delle persone decenti, fortunate ad avere queste connessioni, fortunate ad incontrare queste persone e a vivere momenti così.
Steph – Nel 2017 abbiamo suonato in una città russa chiamata Tula. Prima del concerto, un gruppo di ragazze mi ha chiesto di firmare i poster del tour che stavamo regalando. L’ho fatto con piacere e ho dato loro anche adesivi, spille, i mie plettri del basso. Con l’aiuto della nostra amica Anna, che traduceva, ho scoperto che erano entusiaste di vedere quella sera sul palco una donna che suonava in una punk band, perché non è una cosa comune per loro. Mi ha fatto sentire un modello da seguire. È stata una delle prime volte in cui ho sentito davvero l’importanza di parlare di spazi sicuri per le ragazze, sul palco e ai concerti. A volte do per scontato che per me sia normale, perché è sempre stato così, ma per molte altre persone – in certi paesi – non lo è affatto.
La vostra musica parla spesso a chi si sente un outsider. C’è stato un disco, un libro o un momento della vostra vita in cui vi siete sentiti davvero “visti” quando ne avevate più bisogno?
Chris – Assolutamente sì. Musicalmente, Suicidal Tendencies e Minor Threat quando ero molto giovane, tipo 13 o 14 anni. Arrabbiati ma speranzosi, ribelli ma inclusivi, emotivi e vulnerabili. Le loro canzoni mi hanno fatto capire che non ero l’unico a sentirmi in quel modo. Penso che ogni persona che entra nel punk o nell’hardcore ha quel momento in cui capisce di non essere solo e di far parte di qualcosa di molto più grande. Specialmente oggi, con l’accesso che abbiamo alla musica e alle scene locali di tutto il mondo.
Per quanto riguarda i libri, per me è La Caduta di Albert Camus. È un libro che mette in discussione il perché facciamo cose “buone”, ma in modo molto cupo. Lo consiglio davvero a tutti. Abbiamo una canzone nello split con i Pezz che si chiama The Fall, dove rifletto sulla mia vita in modo simile al protagonista del libro. Ho chiesto ad un mio amico, Aaron Scott (Marathon / Attica Attica), di scrivere e cantare una strofa. Gli ho mandato quello che avevo scritto, e lui mi ha chiesto di raccontargli di più. Gli ho spiegato a grandi linee il senso del libro, e gli ho anche mandato una copia. Ha scritto i suoi versi (fenomenali) dopo averlo letto.
Steph – La mia prima ossessione musicale sono stati gli Smashing Pumpkins. Rubavo i CD a mia sorella maggiore quando avevo 10 o 11 anni. Alla fine ho avuto la cassetta di Mellon Collie and the Infinite Sadness e ogni giorno facevo mettere l’album al nostro autista dello scuolabus per il tragitto verso casa. Nessuno dei miei amici si interessava a quella band, o alla musica in generale, ma per me era la prima musica che amavo davvero. Avevo anche una maglietta XL con scritto “Zero” come quella di Billy Corgan. Era enorme, sembrava quasi un vestitino su di me, ma era l’unica taglia disponibile al “RockShop” di Vancouver. Mi prendevano anche in giro per questo, ma non mi importava. Ho sempre avuto gusti musicali diversi dagli altri bambini della mia età. Non riuscivo a connettermi con loro come invece riuscivo con persone più grandi. Ogni tanto l’autista dello scuolabus veniva sostituito dal figlio, che aveva circa 20 anni. Ogni giorno, quando gli chiedevo di mettere la mia cassetta degli Smashing Pumpkins, lui alzava il volume e si gasava, perché li amava quanto me. Me lo ricordo benissimo, perché per la prima volta sentivo che qualcuno amava la musica come me!
La mia canzone preferita degli Smashing Pumpkins è Mayonnaise, e c’è una frase che dice: “Can anybody hear me? I just want to be me.” Vengo da una cittadina minuscola, e quelle parole significavano tutto per me da bambina. Cercavo la mia tribù di amanti della musica, che nella mia città non esisteva.
Tra rabbia e speranza, il vostro suono riesce sempre in qualche modo a mantenere vivo un filo di positività. Dove trovi ancora speranza oggi, nonostante tutto quello che sta succedendo nel mondo?
Chris – È una bella domanda… Alcuni giorni non ho nessuna voglia di essere positivo e lo stato del mondo mi abbatte davvero. Questa è la verità. Chi proclama di avere sempre una mentalità positiva (PMA – Positive Mental Attitude) sta mentendo a sé stesso. Ho persino un tatuaggio con scritto PMA come promemoria del fatto che la mia vita, a volte, è stata davvero una merda, ma sono riuscito a superare i momenti più bui. Tutti però hanno momenti buoni e momenti difficili, e la positività tossica può essere dannosa quanto la depressione. Trovo speranza e positività in piccole dosi di realtà, se ha senso… Ho un gatto di 22 anni che continua a sfidare ogni previsione e sta benissimo, ho un cane di 11 anni che è così dolce e si comporta ancora come un cucciolo. Posso suonare e andare in tour per il mondo con la mia compagna, Stephanie. POSSO SUONARE E GIRARE IL MONDO. Solo questo è una motivazione per andare avanti. È tanto lavoro, organizzo tutto io, mi occupo della logistica e delle comunicazioni, ma questo ci permette di viaggiare, incontrare persone, condividere la nostra arte e le nostre esperienze, senza perdere troppi soldi.
Suonare in una band mi ha portato in posti dove non avrei mai pensato di poter andare, come l’Ucraina, per esempio. Suonare lì ha fatto nascere un’amicizia con una famiglia ucraina che ha dovuto fuggire dal paese. Li abbiamo aiutati a venire in Canada come rifugiati, trovando loro un appartamento e dei mobili in una città a due ore da Montreal, grazie a degli amici nella scena musicale. La madre e le due figlie sono riuscite ad arrivare, mentre il padre è rimasto per combattere contro Putin. Ora stanno molto bene: la madre e la figlia maggiore lavorano, la più piccola frequenta le superiori. Il loro futuro è qualcosa che dà speranza. Trovo speranza nell’empatia delle persone. L’indignazione globale e le proteste contro il genocidio in Palestina continuano, nonostante la violenza della polizia peggiori sempre di più. Siamo a un bivio come società: dobbiamo stare attenti, altrimenti gli esseri umani rischiano di non esistere ancora a lungo. Con questo pensiero costante sullo sfondo, cerco la gioia ovunque posso. Per me, la gioia è simile alla speranza. Fa sparire il rumore, anche solo per un attimo.
Molti dei tuoi testi toccano il tema della vulnerabilità maschile. Secondo te il punk, come cultura, è evoluto abbastanza su questo punto o c’è ancora una grande battaglia da combattere nella scena?
Chris – Credo che sia molto cambiato, ma la realtà è che nel complesso non basta. Rispecchia la società in generale, purtroppo. E quando possiamo dire che sia abbastanza? Ci saranno sempre cambiamenti, alcuni progressivi e altri meno. Questo crea divisioni all’interno delle scene e segregazione nella cultura “punk” e hardcore. Prendi l’hardcore, per esempio: c’è una nuova ondata di band con donne e persone trans che suonano o fanno da front(wo)man e penso che sia fantastico, ma la reazione contro di loro è fortissima. Cose stupide come: “Ma come si veste?” “Sono bravi… per essere una band di ragazze.” “A quella band interessa la gente solo perché c’è una persona trans.” La maggior parte di queste frasi arriva da uomini, uomini insicuri, a cui piaceva di più quando era un club per soli maschi. Chiariamo: è un problema che esiste da tanto tempo, i 7 Seconds ne cantavano già nel 1984. Penso che stia migliorando, sì, ma siamo ancora lontani da dove dovremmo essere, soprattutto per un movimento controculturale che esiste da 50 anni. La lotta continua, e continua, e continua, e continua.
Hai viaggiato molto e condiviso il palco con band incredibili. C’è un episodio in tour – magari uno che non hai mai raccontato – che porterai sempre con te?
Chris – Questo è uno dei ricordi più forti che ho. E non riguarda nemmeno i concerti. Nel 2015 stavo facendo un tour in Centro e Sud America, aprendo per i Title Fight in cinque date e poi facendo dei concerti DIY con alcuni amici del Costa Rica, gli Overseas. In quel periodo ero completamente al verde. Ho messo tutto il tour su carte di credito già al massimo, quindi quando sono partito avevo una dozzina di barrette proteiche, una borraccia, 100 dollari e nessun altro modo per ottenere soldi, se non dai concerti e dal merch. Il batterista degli Overseas suonava con loro e anche con me ogni sera. Un mio caro amico suonava il basso, anche lui era messo male a livello economico. Le cose stavano andando bene: nei concerti con i Title Fight ci davano da mangiare, ma gli show punk piccoli in Sud America non pagavano. Va bene così, eravamo in tour in Sud America! Ce l’avremmo fatta. Il quinto show era a Porto Alegre, in Brasile: 5 milioni di persone e nessuna autorità. La sera dello show è stata un delirio, ma divertente. Viaggiavamo in due auto perché non trovavamo un van per tutti. La mattina dopo, quando gli Overseas sono andati a prendere la loro auto, era stata rubata. Dentro c’era gran parte della loro attrezzatura e tutto il mio merch. Abbiamo cancellato il concerto successivo e gli Overseas hanno iniziato a pensare di cancellare l’intero tour.
Se l’avessero fatto sarei stato nei guai, perché non potevo permettermi di cambiare i biglietti per tornare a casa. Il nostro bassista è riuscito a tornare e ha deciso di farlo dopo due giorni di incertezza. Dopo molte discussioni, gli Overseas hanno deciso di continuare il tour. Il concerto successivo era a Blumenau, Brasile, dove abbiamo avuto il piacere di suonare con una band svizzera, gli Uberyou. Una settimana dopo li avremmo rincontrati in Argentina: per fortuna, perché avevo perso tutto il mio merch e non guadagnavamo abbastanza neanche per la benzina. Quando siamo arrivati in Argentina, sopravvivevo con una barretta proteica al giorno e non dicevo a nessuno che ero al verde – per stupido orgoglio, suppongo. Arrivati a Buenos Aires, non sapevo che dovevamo pagare l’alloggio, perché fino ad allora eravamo sempre stati ospitati.
Per caso, siamo arrivati all’ostello insieme agli Uberyou, che devono aver capito che qualcosa non andava: mi hanno offerto di dormire con loro, avevano prenotato una stanza privata con sei letti e loro erano in cinque. Era anche il mio compleanno, e mi hanno portato a cena. Così è nata un’amicizia che dura ancora oggi, dieci anni dopo. Ci hanno organizzato concerti, ci hanno prestato strumenti quando ci hanno derubato a Vienna nel 2016 e ci hanno permesso di finire il tour. Abbiamo passato del tempo insieme anche fuori dalla musica, e a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi dovuto dormire in strada a Buenos Aires per quelle due notti. Ho un affetto e un rispetto enormi per le persone in quella band. E suoneremo ancora con loro a luglio e non vedo l’ora!!!!
Se “Holding On To Hope” fosse una persona seduta al tuo tavolo in questo momento, cosa pensi ti direbbe?
Chris – Questa domanda è molto intensa per me. Voglio affrontarla da un punto di vista positivo, perché è questo ciò che vorrei che le persone portassero via da questo disco. Se glielo permetti, questo album ti porta dentro a tunnel profondi di dubbio, dolore, rabbia, perdita e altro ancora.
Se “Holding On To Hope” fosse qui seduto con me, spero che mi direbbe:
“Va tutto bene. Non puoi controllare ciò che succede fuori da quello che fai. Continua a essere una brava persona, vivi il momento presente, apprezza i momenti belli. La vita non è facile, ma sei davvero fortunato ad avere tante persone meravigliose nella tua vita. Non sprecarla.”
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